Aeroporto di Fiumicino un sabato di mezza estate, pomeriggio. Punto ristoro self service in attesa del volo che mi porterà dall’altra parte del mondo.
Con la vista su un anonimo piazzale aeroportuale consumo il tempo che mi separa dall’imbarco mangiando una pietanza senza personalità, mentre davanti ai miei occhi si svolge la seguente scena: un signore sulla cinquantina, solo, come me, si siede al tavolo di fronte con il suo vassoio. Lo posa, prende i piatti sistemandoli davanti a sé e si versa metà bicchiere di Coca Cola dalla bottiglietta. Si capisce che ha fame dalla cura, appena colorata da una lieve impazienza, con cui compie quei gesti preparatori.
Tutto ad un tratto, prima di impugnare la forchetta e il coltello per “attaccare” il suo pranzo, si ferma e, con movimenti misurati, prende il suo telefono e fotografa il piatto che gli sta davanti. Fino qui quell’atto non avrebbe attratto così tanto la mia attenzione. Siamo abituati ai ragazzini (e non solo) che si fanno i selfie nelle situazioni più assurde o che fotografano i momenti più quotidiani e privati per metterli poi sulle storie di Instagram o mandarli agli amici. Ecco appunto, per pubblicarle da qualche parte. Per condividerle. Invece no. Il mio vicino di pranzo dopo aver immortalato con cura il piatto che si apprestava a gustare, rimette giù ordinatamente il telefono sul tavolo e si mette finalmente a mangiare.
Ora, di fronte a questa bizzarra situazione uno che vi assiste ha due possibilità: ironizzare sul non senso e sulla superficialità del mondo di oggi, bollando quell’atteggiamento come ridicolo, che sarebbe però anche quella una presa di posizione superficiale e priva di senso, cioè priva di direzione, oppure cercare di capire quale insieme di cause può stare all’origine di tale gesto.
Allora, in cammino sulla seconda strada mi sorprendo a pensare che quell’interruzione fra la preparazione e il godimento di un evento come un banale pasto, ha qualcosa di religioso: mi ha ricorda la preghiera che, nelle famiglie di un certo tipo, il padre esorta madre e figli a compiere verso il creatore come gesto di riconoscenza prima di godere di ciò che è dato loro in dono. Mi riconduce al compimento di un rito. E forse anche nel fermarsi a scattare questa foto c’è l’elemento del ringraziamento. In fondo quando si fa una fotografia, si toglie quell’attimo dal fluire del tempo, lo si salva dal divenire e dall’oblio.
L’episodio mi ha ricordato quell’arguto racconto breve di Calvino in cui il protagonista chiede a delle amiche fissate con le fotografie:
“Cosa vi spinge, ragazze, a prelevare dalla mobile continuità della vostra giornata queste fette temporali dello spessore d’un secondo?” (L’avventura di un fotografo, da Gli Amori Difficili)
È esattamente la domanda che avrei voluto fare al mio vicino di forchetta. Dato che sono piuttosto certo che l’intento non fosse quello di documentare l’eccellenza di quel cibo da autogrill, è probabile invece che quello sia stato un momento particolarmente importante o piacevole della sua esistenza. Del resto, all’aeroporto si va per cambiare: aria, vita, scena. Dipende. Allora forse quel signore davanti a me, più o meno consciamente, avrà voluto dire a sé stesso: “guarda che bel momento che sto vivendo! Fermiamolo, prima di continuare a viverlo”.
Nello stesso racconto, Calvino si chiede se fotografiamo la realtà perché ci appare bella, o se la realtà ci appare bella proprio perché viene fotografata. Sembra Marzullo, ma è Calvino, vi assicuro. È colpa mia che l’ho un po’ parafrasato.
E lui se lo chiedeva in un’epoca in cui il digitale non era stato ancora inventato, quando ancora bisognava andare dal fotografo a farsi sviluppare il rullino. Oggi, che in teoria si può scattare una foto ogni secondo della nostra vita, questa proliferazione di immagini può essere vista o come il trionfo della superficialità, oppure come una pioggia rituale inversa di bigliettini lanciati ad un cielo virtuale a ringraziare il tempo per averci regalato momenti degni di nota.
Così come, quando si vede un uomo solo che fotografa un piatto di mesta verdura cotta, accompagnato ancora più tristemente da una Coca Cola (light per giunta), si può assumere l’atteggiamento del criticare o quello del cercare di capire. Oggi ho scelto il secondo e me compiaccio.
Chapeaux!