D’Arienzo e Troilo: dal giorno alla notte.

La difficoltà di irretire il tango in una qualche definizione esatta, di tracciarne un’identità che ne evidenzi con chiarezza i contorni e i confini è insita nella sua natura di genere poliedrico, sorto da un crogiolo di culture e influenze anche molto distanti fra loro (ritmi africani, melodie italiane, canti popolari dell’est europa, strumenti tedeschi ecc) che hanno avuto in comune solo il fatto di trovarsi a passare, ad un tempo dato, per il porto di Buenos Aires.
Il tango è un fenomeno tanto affascinante quanto sfuggente e sfaccettato. Prova ne è che i due stili interpretativi proposti in questo articolo, quello di D’Arienzo e quello di Troilo, pur nella loro diversità per certi versi antitetica, possono coabitare a buon diritto dentro il grande e accogliente tempio del tango argentino.
Per questo confronto, ho voluto prendere due orchestre che suonano la stessa canzone proprio per ridurre le differenze di contenuto e far risaltare invece quelle legate alla forma interpretativa.
In sostanza, in questo caso, gli elementi in comune fra le due orchestre sono gli strumenti usati, che sono quelli dell’orchestra tipica di tango, cioè pianoforte, violini, bandoneon e contrabbassi, e le note suonate, che sono quelle della famosa Cumparsita.
Vedremo subito, però, che i due modi di rendere vive quelle stesse note scritte sul pentagramma sono talmente diversi e lontani tra loro da dare vita a due universi emotivi addirittura di segno opposto, come suggerito dal titolo di questo pezzo.
Le immmagini del giorno e della notte non sono state da me prese a caso per indicare semplicemente una grande differenza tra i due, ma proprio perché uno rappresenta il giorno, la luce, la solarità e l’altro il suo negativo, l’elemento notturno appunto.

Vediamo perché. Ascoltate i due brani interamente uno dopo l’altro e, prima di andare avanti a leggere, fate le vostre considerazioni. Sarà interessante poi confrontarle con le mie alla fine di questo articolo per vedere quanto siamo d’accordo.

Riprendiamo l’ascolto e analizziamo ora solo l’inizio e la prima frase completa dei due brani. I primi 28/30 secondi.
L’abisso che separa le due interpretazioni appare subito chiaro fin dai tre accordi di pianoforte in levare prima dell’inizio vero e proprio e poi dalla frase stessa. D’Arienzo inizia in modo fresco, maschio, vigoroso; come un atleta appena alzato che si appresta, pieno di energie, a correre la maratona. C’è subito profumo di caffè, c’è il sole che entra prepotente dalle finestre, c’è la voglia di spaccare il mondo in due. Perfino le pause sono cariche di energia, come una molla pronta a scattare.
In Troilo, quegli stessi tre accordi iniziali, suonati con lo stesso strumento, il pianoforte, ci immettono in un “mood” completamente opposto. Delicati e quasi sottovoce, ci guidano subito al languido lamento del violino la cui prima nota lunga viene addirittura lasciata senza alcun accompagnamento ritmico per una intera battuta. Poi c’è la sezione ritmica con i bandoneon e il piano inizia, si, a modulare la frase principale, quella che in D’Arienzo è predominante e energicamente staccata, ma Troilo ci spalma sopra un velo di malinconia espresso dagli archi, che con un moto discendente (dall’auto al grave) arrivano alla fine della semifrase (0.15) per poi dialogare con i bandoneon che ne amplificano i lamenti, e precipitare, con un senso di inevitabilità, accentuato da una lieve accelerazione del tempo ad opera dei bandoneon, verso la fine della frase.
Già questi 30 secondi bastano a tratteggiare due mondi completamente diversi. L’uno diurno, solare, apollineo. L’altro cupo, notturno, dionisiaco.
La musica di D’Arienzo è metafora di una piena fiducia positivista nell’ordine, nelle geometrie temporali che sostengono l’intelaiatura sonora. Affidabilità e stabilità sono il suo marchio. La scansione temporale in D’Arienzo è regolare, la sezione ritmica della sua orchestra sembra un metronomo. Non solo, un metronomo costruito in Svizzera.
Se fate un esperimento capirete di cosa sto parlando. Mettete la Cumparsita o qualsiasi altra canzone suonata dall’orchestra di D’Arienzo e battete il tempo insieme ai lui. Chi mastica nozioni di teoria musicale può farlo solfeggiando con la mano i quattro quarti della battuta, gli altri possono semplicemente battere il piede a tempo. Ad un certo punto abbassate totalmente il volume dell’apparecchio e continuate a battere il piede a terra in modo regolare. Dopo qualche secondo alzate di nuovo il volume e vedrete che sarete ancora in sincronia con i 4/4 dell’orchestra. E se non ci sarete, vuol dire che avete sbagliato voi, accelerando o rallentando, perché lui non sbaglia. Tempo svizzero.
Ovvio che se provate a fare lo stesso esperimento con Troilo, non funzionerà. Perché Troilo non è “svizzero”. Troilo la regolarità la guarda in faccia e la sfida continuamente trattenendo, rallentando, recuperando, rubando, ecc. Ci gioca insomma a guardie e ladri, dove il ladro, ovviamente, è lui.
Ma proseguiamo nell’ascolto.
La seconda parte in D’Arienzo si snoda dal minuto 00:28 al minuto 00:54. Bandoneon e archi incisivi e pianoforte saltellante, fino a quel breve assolo del violino (da 00.50 a 00.55) che chiude la frase con un legato che sarebbe anche languido e dolce se non fosse per l’imperturbabilità svizzera della sezione ritmica che, non concedendogli niente sul piano temporale (tipo, non so, un accenno di rallentando), lo fa sembrare piuttosto una citazione ironica di un assolo languido e dolce, quasi che D’Arienzo (che era infatti soprannominato El Rey del Compas, Il Re del Ritmo), volesse distanziarsi da questi tipo di “sdolcinatezze” mettendole, diciamo, fra virgolette.
La sezione corrispondente in Troilo (00.30 fino a 1.00) inizia con uno slancio di energia subito negato da quel velo di malinconia che ritorna a chiudere la frase (da 00.41 a 00.44) e che non è sdolcinatezza, è dolore. Questa cupezza presente spesso nella musica di Troilo, mi fa pensare al Bacco malato di Caravaggio. C’è la gioventù, ma ha la faccia pallida e scavata dalla malattia. C’è la frutta, ma il grappolo tenuto in mano dal giovane è già mezzo marcito.

Ma l’invenzione geniale di Troilo arriva nella terza parte. Mentre nella sezione corrispondente D’Arienzo (da 00.56 a 1.21) continua alternando galoppate ritmiche con pause ammiccanti ancora una volta all’ironia, Troilo ne fa una delle sue: una cosa che nessuno si aspetterebbe. Da assoluto maestro nell’arte del “togliere” qual è, chiede al suo pianista di suonare con un dito solo. Come se suonasse un bambino. Geniale. E allora la melodia in quella sezione (da 1.01 a 1.28) è introdotta da 8 semplici note isolate del pianoforte, sobrie e perentorie proprio come rintocchi di campana che si espandono da un’alta torre sul silenzio della campagna circostante, e termina poi con un delicatissimo fraseggio dialogato tra mano destra (note acute) e mano sinistra (note gravi).

Ma veniamo alla quarta sezione, che nel caso di Troilo è l’ultima, il finale. Va da 02:02 alla fine del brano e in D’Arienzo da 1:50 a 2:15.
Questa parte in D’Arienzo assume le forme della tipica variazione, che nel tango è l’ultima parte di una canzone in cui si ripete il tema principale, suonato con una grande quantità di note in più che si susseguono velocemente in modo da mettere in luce il virtuosismo dei musicisti (di solito il bandoneon) e dei ballerini che si sfogano in figure particolarmente rapide e spettacolari.
E infatti il bandoneonista di D’Arienzo apre qui un fuoco di note (da 01:51) che ci lascia per più di 20 secondi con il fiato sospeso ad ascoltarle snocciolarsi dalle sue dita una ad una, con una rapidità e una precisione da applausi a scena aperta e un effetto concitato di grande impatto musicale. Poi, invece di chiudere lì, D’Arienzo, instancabile, apre una coda di un minuto circa in cui prevalgono gli archi, che porteranno la canzone a conclusione.
E Troilo? Va beh Troilo, lo abbiamo capito, è imprevedibile. E infatti anche questa volta prende una direzione che nessuno si aspetterebbe. Fa scemare in un pianissimo la sua orchestra e comincia lui. Ma non con la variazione, non con la cascata di note che tutti si aspetterebbero da un bandoneonista geniale come lui. No, lui toglie, sottrae, spiazza, disorienta. Ricordiamo, per chi non lo sapesse, che nell’orchestra di Troilo è lui stesso che suona il bandoneon.
Ascoltatelo, tornate su, vi prego, cliccate di nuovo sul link, mettete il cursore al minuto 02:00 e ascoltate fino alla fine prima di continuare a leggere. Poi tornate qui.

Fatto? Allora? Siete gli stessi di prima? Non credo. Se lo avete ascoltato in buone condizioni di silenzio intorno o con l’isolamento delle cuffiette e siete dotati di una sensibilità non inferiore alla media, non credo che possiate essere gli stessi dopo aver sentito questa roba qua. Perché questa è arte pura che ti entra dentro e ti ridisegna, anche di poco, anche impercettibilmente, le mappe emotive per sempre.
E pensare che Troilo lo fa togliendo, lo fa da anti virtuoso, da anti-eroe. In questo blog ho scritto un altro articolo sugli assoli di Troilo, a cui vi rimando con un link in calce alla pagina.
Ma vediamo questo assolo nel particolare. Ci sono prima gli stessi tre accordi di pianoforte dell’inizio e poi dall’oscurità emerge la prima delle sue note. Stanca, sconsolata, quasi tirata fuori a forza, senza la voglia di andare avanti. Pensate: è come se nell’opera lirica, il tenore, al momento della sua aria più importante, con il proscenio tutto a sua disposizione, invece di sparare un do di petto a tutti polmoni, si ritirasse in un cantuccio a borbottare fra sé e sé.
Mi viene da pensare alla poesia Natale di Ungaretti:

Natale

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata.

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare (1916)

Ecco, sembrano dire proprio questo le note di Troilo in questo assolo.
Sono le parole dell’anti-eroe. Sia in Ungaretti che in Troilo c’è la consapevolezza di colui che sa che, con questa reticenza (che è poi un artificio retorico inventato ad arte), riuscirà a dire in realtà molto di più di coloro che parlano (o suonano) ad alta voce.
Troilo, da grande artista qual è, sa che le sue note stanche, sole e mezze immerse nell’ombra, come molte figure Caravaggesche, sempre al punto di essere di nuovo inghiottite dal silenzio, incideranno nell’ascoltatore solchi molto più profondi del canto condotto ad ali spiegate.
E infatti, se notate, dopo il pianissimo sommesso a cui arriva il suo fraseggio intono al minuto 02:25, il suo bandoneon si lascia sommergere dal “tutti” che nei pochi secondi rimanenti chiude la canzone. Per il suo assolo, Troilo aveva a disposizione una sola frase e non la usa nemmeno tutta. Non ha nemmeno la voglia o la necessità di arrivare alla fine. Sa di aver già detto tutto. Sa che continuare sarebbe solo vacua ripetizione. Allora, con D’Arienzo succede che lo ascolti e dici “wow! Che forza, che energia!” E ti viene voglia di ballarlo. Con Troilo invece ti può succedere come a me che giorni fa, durante un viaggio in auto di quasi 300 km, ne ho passati circa la metà con la sua Cumparsita in repeat nello stereo ad ascoltarla decine e decine di volte di seguito perché ogni volta quelle note, e specialmente quel pathos assoluto dell’assolo finale, andavano ad irrigare di nuova linfa emotiva i percorsi tortuosi della mia sensibilità interiore.
Allora, o sono un po’ pazzo io, o era pazzo, nel senso di pazzo geniale, lui, Aníbal Troilo.

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2 pensieri su “D’Arienzo e Troilo: dal giorno alla notte.

  1. Che vuoi commentere? Mi ero già letto l’altro articolo dedicato a Troilo, e già avevo inteso la pasta di questo blog. Qualcosa che, a quanto ne so, mancava nel panorama italiano e di cui sentivo un gran bisogno. A maggior ragione, in questo periodo in cui non posso ballare, ed ho dovuto anche rinunciare alle tue lezioni. Per ora grazie e a presto.

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