La rivoluzione restauratrice
Le cose non sono mai solo ciò che sono. Semplicemente perché non sono, ma appaiono. O meglio, saranno anche, ma, per noi, “sono” solo nella misura in cui ci appaiono. Quindi possiamo solo conoscere come si manifestano a noi e mai ci è dato di sapere come le percepisce un’altra persona. Non solo, ma addirittura una stessa cosa ci si mostra a volte molto diversa (e quindi, per noi, è molto diversa) se la percepiamo in momenti differenti della nostra vita. Senza dover andare a ripassare Kant, Sartre o Pirandello, il che – detto per inciso – non farebbe affatto male a nessuno, portiamo il discorso su un piano più quotidiano.
Prendiamo una qualsiasi foto di un qualsiasi personaggio famoso degli anni ottanta (1980 intendo). Quelle giacche lunghe con le spalle imbottite e quelle capigliature “phonate” e voluminose che a quel tempo ci sembravano super “cool” e all’ultima moda, oggi ci suscitano un sorriso tenero o, a seconda dei casi, una smorfia sarcastica di disgusto.
Oppure pensiamo con quale incanto abbiamo posato gli occhi per la prima volta su quell’arnese nero, grande come un mattone, con il quale, intorno al 1992, improvvisamente potevamo chiamare qualcuno senza essere attaccati ad un filo o a una linea telefonica fissa. Ai nostri occhi di oggi è archeologia pura.
In questi due periodi citati sopra io c’ero e quindi mi ricordo bene che effetto ci facevano allora le giacche e i capelli di Simon Le Bon o il mitico “Motorola”.
Il difficile viene quando si parla di fenomeni avvenuti prima della nostra nascita. Allora qui la passione dello storico cerca, appunto, di storicizzare. Cioè di mettersi nei panni di coloro che hanno visto succedere un evento per la prima volta e di figurarsi cosa hanno provato di fronte ad esso, mentre succedeva.
Per esempio: ve lo immaginate lo stupore dei comuni cittadini quando nelle strade per lo più ancora sterrate e strette di fine Ottocento si videro passare davanti le prime automobili? Un po’ di questa meraviglia è rimasta cristallizzata nel nome che i contemporanei hanno dato a quella macchina diabolica: auto-mobile. Oggi quella parola composta la diamo per scontata, ma se ci pensate, tra tutti i nomi possibili, hanno scelto quello perché si vede che la novità straordinaria per chi le aveva create era proprio quella: una macchina che si muoveva da sola. Non è cosa da poco. Fino ad allora le carrozze e anche i tram cittadini erano trainati da cavalli. Pensate: un giorno di punto in bianco, un qualsiasi uomo o donna seduti ad un caffè della piazza principale ti vedono passare una carrozza che si muove senza avere i cavalli davanti. Qualcuno avrà pensato ad una allucinazione.
Sono finito in queste riflessioni partendo dall’ascolto di una canzone di tango suonata dall’orchestra di Carlos Di Sarli. Questa:
Ovviamente è impossibile immedesimarsi nelle sensazioni che suscitava musica di questo genere in coloro che la ascoltavano da contemporanei, cioè nel 1931, anno d’incisione di questa versione di Sobre el Pucho. Di sicuro possiamo dire che non erano le stesse che proviamo noi oggi. Per loro era l’ultimo hit alla moda, mentre a noi canzoni come questa parlano di un tempo passato, non foss’altro che per la qualità scadente della registrazione. Se ci piace questa musica è perché ci piace il Tango, come ballo dico, e godiamo a metterci in contatto con quell’epoca in cui esso era in auge. È un piacere estetico mediato da una consapevolezza razionale.
Perché se ci pensiamo bene, il fenomeno del tango ai giorni nostri è assai particolare. Se avete mai provato a portare in Milonga un vostro amico o amica che niente ha a che vedere con il tango, sapete di cosa sto parlando.
Noi entriamo in Milonga e vediamo uno scenario familiare, facce conosciute, musica che riconosciamo all’istante, gente vestita in modo più o meno elegante, ma comunque “da Milonga”, insomma un paesaggio umano del tutto consueto.
Lui, il nostro amico non tanguero vede: una sala piena di gente vestita in modo vistoso e fuori moda (vedi le calze a rete e i pantaloni larghi, gessati e con le pences stile anni ’40) che ascolta musica un po’ gracchiante che perfino i suoi genitori troverebbero démodé. E di solito guarda la scena con un misto di ammirazione (perché comunque il movimento dentro l’abbraccio piace a prescindere) e incredulità, con un mezzo sorriso al quale sarebbe facile asssegnare la nuvoletta stile Asterix e Obelix, SPQT. Sono Pazzi Questi Tangueri.
Sarebbe come se oggi un ventenne andasse di sabato sera in un lounge bar di quelli super fighi per un cocktail e dai potenti speaker uscisse Grazie dei fiori di Nilla Pizzi o Mamma di Luciano Tajoli. Immaginatevi la scena.
Comunque, tornando alla canzone che ha dato la scintilla a queste riflessioni e tornando all’interno della storia del Tango, se mettiamo a confronto la versione precedente con questa della stessa canzone suonata da Juan D’Arienzo, ci rendiamo conto che ad un certo punto nel gusto collettivo dei fruitori c’è stata una cesura profonda. Eccola: l’incisione è del 1941:
Agli inizi degli anni ‘30 (la registrazione di Di Sarli, ricordiamolo, è del 1931) il tango stava languendo. Proprio nel senso che predominava un senso di languidezza, espresso dalla lentezza e pesantezza del ritmo e dalla melodia un po’ “piagnona”, decadente e mollemente sensuale. Lloron (piagnone appunto) è un termine usato non da me, ma da Jorge Luis Borges a cui piaceva soltanto il tango dinamico, goliardico e giocoso degli inizi e che non amava la svolta triste e malinconica che il genere prese a partire dal 1917.
Ascoltando invece la versione di D’Arienzo, si percepisce chiaramente che il suo modo di suonare quella stessa musica, rappresenta non soltanto un leggero cambiamento, ma una vera e propria mutazione del gusto dominante. Un vero ’68 del tango più di 30 anni prima. Quell’energia portentosa, quel ritmo galoppante, la freschezza e la novità degli arrangiamenti compiono una rivoluzione, restaurando proprio l’elemento principale attorno al quale quel tipo di musica era stata creata 50 anni prima: il ritmo. Chissà, se non fosse arrivato uno come D’Arienzo, il tango avrebbe potuto essere magari spazzato via dal Jazz o dal primo colpo di stato militare del 1930 che portò al potere in Argentina il generale Uriburu. Proprio come l’altro Golpe del 1955, che riuscì invece questa volta a contribuire in modo non secondario alla decadenza del genere oltre che del generale Peròn.
A proposito, consentitemi una digressione. Perché in Argentina ci sono ancora vie intitolate al generale Uriburu (è un’arteria importante che attraversa il centro di Buenos Aires) che soffocó la democrazia negli stessi anni in cui il fascismo la soppresse da noi? Non mi sembra che noi abbiamo via Benito Mussolini o piazza Galeazzo Ciano. Va beh ma questa è un’altra storia e merita forse di essere oggetto di un altro articolo.
Invece D’Arienzo arrivò. Arrivò eccome. E intorno al 1935 portò una ventata di novità tale da avvicinare tutta una nuova generazione di giovani alla passione per il tango. La sua musica fu una specie di sveglia improvvisa che risuonò vigorosa, scuotendo il mondo della musica popolare porteña, dandole quel ritmo e quella dinamica che riportò al centro della scena il ballo. Ascoltate ancora la carica energetica del ritmo frizzante e scoppiettante di Sobre el Pucho di D’Arienzo. Un altro mondo dalla versione di Di Sarli del 1928.
Si racconta che dopo l’esplosione del fenomeno D’Arienzo, migliaia di giovani facessero la fila per entrare nei club de baile dove la sua orchestra suonava. Si racconta che le principali case discografiche del tempo chiedessero alle loro orchestre di suonare “alla maniera di D’Arienzo”. Si racconta anche che Troilo, il grande Troilo, che pure era geneticamente diverso dal Rey del Compàs (questo il soprannome di D’Arienzo, il re del ritmo), negli anni ’40 avesse confidato ad alcuni amici musicisti: “Se oggi lavoriamo tutti così tanto è merito di D’Arienzo”.
Perché la musica di D’Arienzo non la puoi ascoltare e basta. Ti devi muovere. Ti impone di ballare. E infatti fece ballare le nuove generazioni di quel tempo, dando il via a quella che chiamiamo l’epoca d’oro del tango, che durò all’incirca 20 anni ancora. Dopo questo ’68 ante litteram, alcune orchestre passarono di moda e scomparvero dalla scena mentre altre, la maggioranza, si adeguarono, almeno in parte, a questa nuova sensibilità che domandava “ritmo” e dinamica. E Carlos Di Sarli, che per molti aspetti è diverso da D’Arienzo, tuttavia, dopo il 1935, cambia il suo modo di suonare dando maggiore importanza al ritmo, come si sente chiaramente in questa canzone registrata nel 1939:
Poi, da artista raffinato qual era, troverà la sua strada negli anni ’40 proponendo una musica per molti versi alternativa a D’Arienzo, ma in ogni caso molto lontana dalla sua dei primi anni ‘30.
Insomma è un po’ come quando, durante il vero ’68, di fronte al fenomeno dei Beatles o, per rimanere in Italia, di fronte all’arrivo dei Nomadi, dei New Trolls o dell’Equipe 84, ci fu chi, come Claudio Villa, restò chiuso nella sua arroganza da Reuccio e fermo sul suo “binario triste e solitario”, scomparendo piano piano dalle classifiche, e ci furono invece artisti come Mina, Celentano e Morandi che, sebbene più giovani, avevano anch’essi cominciato le loro carriere prima di quel tornado culturale della fine degli anni ’60 e che seppero invece reinventarsi secondo lo spirito dei tempi tanto da essere ancora oggi in voga dopo 50 anni.
Insomma Juan D’Arienzo, con l’ossimoro della sua Rivoluzione Restauratrice diede, intorno alla metà degli anni ’30, un potente nuovo slancio ad un genere in incipiente stato di decadenza. E se Troilo negli anni ’40 riconosceva al Rey del Compás il merito del successo che il tango stava vivendo nella sua epoca d’oro, noi possiamo forse spingerci ad argomentare che, ci piaccia D’Arienzo tanto o poco, senza di lui oggi non saremmo, forse, qui a ballare ancora il Tango a distanza di più di 100 anni dalla sua nascita.
Complimenti Stefano, leggerti è un piacere. Diffondere queste preziose pillole di storia, fa di te non soltanto uno dei tanti insegnati di tango argentino, bensì un conoscitore della storia del tango facendo apprezzare ai tuoi allievi il piacere di ballare ascoltando le bellissime sfumature di questa unica e insostituibile musica.
Grazie 🙏