Gli assoli di Troilo. I 9 secondi più belli della storia del tango

Perché ci affascina l’arte? E perché l’uomo, unico tra i mammiferi, ha inventato questa forma strana di attività “inutile” che lo distrae dagli scopi utilitaristici legati alla lotta per la sopravvivenza e per il miglioramento delle sue condizioni pratiche di vita? Sono state date milioni di risposte a questa annosa domanda fin da quando il nostro antenato preistorico, fra una battuta di caccia e l’altra, ha sentito il misterioso bisogno di raffigurare scene di vita sulle pareti delle sue caverne.
Una di queste può essere la seguente: con l’arte l’uomo tenta da sempre di oltrepassare dei limiti. Il limite di non essere Dio e quindi della mortalità, il limite di non poter trovarsi, almeno fisicamente, in più luoghi allo stesso tempo, quello di avere un corpo che lo imprigiona in un solo, angusto, punto di vista eccetera.
Sapendo fin troppo bene che questi limiti sono invalicabili, l’uomo “normale”, quello serio e razionale, vi si arrende, mentre l’artista si ostina a crearsi l’illusione che essi possano essere superati. Naturalmente non è un idiota. Sa benissimo che non ci riuscirà mai, ma gode dell’illusione di potercela fare.
È in fondo la stessa attitudine dei bambini quando giocano al “facciamo finta che…”. Loro sanno benissimo che da lì a poco la mamma li verrà a chiamare per ordinargli di andare a lavarsi le mani e mettersi a tavola, ma fintanto che il gioco dura, si immedesimano in quella finzione di essere un re, una ballerina o una principessa, con il massimo della loro partecipazione emotiva e con una serietà totale.
In tutti noi permangono per fortuna dei tratti tipici dell’infanzia ed è presente un elemento di artisticità. È quello che ci fa godere dell’arte anche se non la produciamo. È quella ostinata, infantile propensione alla finzione che emerge anche nella vita di tutti i giorni in alcuni di noi, quando siamo in ritardo ad un appuntamento e ci illudiamo che quei 10 minuti che rimangono fra noi e l’ora fissata, questa volta, solo per questa volta, si espanderanno magicamente fino a contenere quei 5km pieni di traffico e semafori che ci dividono dalla meta. Solo all’ultimo momento ci rendiamo conto che nemmeno questa volta le leggi implacabili dell’universo hanno fatto un’eccezione. Ma intanto, per 9 di quei 10 minuti abbiamo vissuto nell’illusione e forse questo ci ha fatto bene. Ci ha fatto bene poterci sperare.
Dunque i limiti. Senza di essi forse l’arte non sarebbe mai esistita. Le restrizioni e le barriere sono sempre state, oltre che la causa, l’energia vitale della creazione artistica. Pensiamo a quando i pittori del primo Rinascimento si sono intestarditi a voler riuscire ad inserire la terza dimensione su una tela bidimensionale. O almeno a crearne appunto l’illusione. Oppure quando i cubisti in quella tela hanno voluto metterci addirittura la quarta dimensione: il tempo.
Ecco, il musicista è l’artista che ha una più stretta relazione con il tempo. C’è chi dice che la musica sia stata inventata per sfidare il confine del tempo, per forzare un limite appunto. E questa apparente contraddizione fra una restrizione autoimposta e la voglia di libertà è presente in modo tutto particolare nel Tango che, avendo un’anima popolare e una colta, riproduce su un altro livello la tensione dialettica fra la perfezione matematica delle strutture temporali della battuta in 4/4 e l’istinto notturno e ribelle che dentro quello spazio/tempo segnato da due stanghette verticali sul pentagramma davvero non ci sa stare quieto e tenta costantemente di forzare le sbarre.
Esemplificazioni di questa dialettica tra l’Apollineo e il Dionisiaco (come avrebbe detto Nietzsche)
vedi riferimento bibliografico in fondo all’articolo
sono alcuni assoli di Aníbal Troilo che suona il bandoneon per la sua orchestra. Premessa: Troilo è il più grande artista del tango argentino. È un’affermazione questa largamente condivisa. Io lo chiamo il Mozart del tango. Da una parte ci sono tutti i bravissimi musicisti che hanno portato la musica del tango ai massimi livelli e dall’altra c’è lui. Troilo. Il genio.
Ecco Troilo, quando fa gli assoli con la sua orchestra, si comporta in maniera inaspettata. Voglio dire, è la sua orchestra, potrebbe fare ciò che vuole e invece si impone dei limiti, limiti di presenza per cominciare. Si ritaglia per se, per il suo assolo, solo 10-15 secondi di solito verso la fine del brano. Un niente. E poi limiti di suoni, perché mentre molte variazioni di canzoni di tango sono piene zeppe di note suonate a velocità vertiginosa dal bandoneonista che mira a mettere in luce le sue qualità di virtuoso, nei suoi assoli il bandoneon di Troilo emette pochissime note e una per volta. Come suonare il pianoforte solo con due dita. Perché? Perché Troilo è contrario al virtuosismo fine a se stesso e preferisce affidare tutta la responsabilità espressiva a due elementi, che sono poi due tipi di polarità, una diacronica e una sincronica. La polarità diacronica è quella del volume del suono, quella fra i forti e gli struggenti pianissimi. È diacronica perché i due termini si susseguono e si alternano nel tempo: quando c’è uno non c’è l’altro.
Sentiamo per esempio l’assolo di Garua, nella versione che Troilo incide con il cantante Roberto Goyeneche,

Andiamo nella parte finale e notiamo come la frase dell’assolo che comincia con un volume medio forte al minuto 2.47 e discende verso le profondità intimiste di un pianissimo che dal minuto 2.55 porta di nuovo improvvisamente ad un forte con cui comincia la seconda parte della frase (minuto 2.59), ripiomba poi subito di nuovo, in picchiata, verso un esile filo di pianissimo estremo che ci coglie di sorpresa provocando quel vuoto allo stomaco che ci prende durante una discesa sulla montagne russe.

Per quanto riguarda il secondo conflitto fra opposti, mi riferisco al contrasto fra gli elementi apollineo/dionisiaco di cui parlavo prima. Quello fra l’istanza razionale, diurna e ordinata del ritmo imperterrito, scandito in questo caso dagli archi e l’istinto notturno, inconscio e ribelle della linea melodica del bandoneon di Troilo che fa di tutto per non volervi sottostare. Prima c’erano il Forte e il Piano che si avvicendavano. Ora ci sono l’Ordine e il Caos che però questa volta, ed è lì il colpo di genio, sono presenti insieme, allo stesso momento, in una sintesi di sublime profondità estetica e direi anche filosofica. Vediamo perché.
Si ascolti il mirabile assolo di Inspiracion del 1957
Ecco quello che succede:

Al minuto 2.45, dopo che l’ultima frase del “tutti” orchestrale si ritira in rispettoso disparte, entra lui, Troilo, con il suo bandoneon che inizia a modulare la frase con una asciutta, quasi ieratica, monodia. Rimangono sullo sfondo i pizzicati degli archi a fargli notare, con rispetto ma anche con fermezza, che quello è il tempo e che lì, dentro quei limiti si deve restare e, come se i vincoli non bastassero, che quella è l’ultima frase e tutto deve volgere ineluttabilmente al termine. Ma lui no, non ci sta, non ci vuole stare, lotta, si attarda, rallenta, si fa tirare, è lì come quel bambino che dice alla mamma “altri 5 minuti per favore”. E continua ad illudersi che in quei 10 secondi restanti ce ne possano entrare magicamente 12.
“Solo per questa volta” sembrano pregare le sue dita, mentre la sezione ritmica della SUA orchestra non molla, non si fa intimidire e continua a fendere l’aria con il suo ritmo imperterrito. “Tutto deve volgere al termine Maestro, ora!” Ma le sue note tentano il colpo di coda di un’ultima disperata resistenza, il caos non vuole cedere all’ordine, la vita non vuole soccombere alla morte. Già, perché se al posto della mamma che viene ad interrompere le illusioni ludiche del bambino, ci mettiamo la nera mietitrice che viene a recidere il tempo dell’uomo, ecco che allora capiamo perché dal minuto 3.12 al 3.21 scorrono i 9 secondi più belli di tutta la storia del Tango. Lì in quel finale emerge, con forza di simbolo, tutta l’atavica lotta fra le pulsioni umane, irregolari, accaldate e imperfette, e la siderale geometria dell’ordine dell’universo. Ad ognuno di quei 9 secondi che sfila, con il battito ritmico che sembra adesso alzare la voce e quasi “sgridare” colui che si attarda ancora con quelle note trattenute in punta di dita, ci facciamo sempre più certi sull’esito inevitabile di quel duello; anche se, illusoriamente, continuiamo a tifare per colui che sarà il perdente. E ci arrendiamo soltanto quando si arrende lui, il bandoneon di Troilo, che si riallinea finalmente al tempo e all’ordine prestabilito, cadendo, domato e sfinito, su quei quattro accordi finali in cui si sente tutta la spossatezza di chi ha combattuto invano. Invano solo nel senso che poi ha perso. Non certo perché non valesse la pena lottare.

[1] F. Nietzsche La nascita della tragedia (dallo spirito della musica), Adelphi, 1988.

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3 pensieri su “Gli assoli di Troilo. I 9 secondi più belli della storia del tango

  1. Un articolo che è poesia e filosofia. Fa venire i brividi e mostra tutta la vasta cultura di chi lo ha scritto. Grazie
    Monica

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