Si possono insegnare le emozioni?
Si può portare una persona ad emozionarsi di fronte ad un qualcosa che, senza una guida, non susciterebbe in lei il minimo interesse?
Se seguiamo il principio, difficilmente confutabile, della spontaneità e immediatezza degli stati emotivi legati a sollecitazioni estetiche (cioè quelle provenienti dai nostri sensi) dovremmo concludere con una risposta negativa.
Si può ordinare a qualcuno di amare Bach? Di commuoversi ascoltando la quinta sinfonia di Mahler o di incantarsi estasiato di fronte alla Venere del Botticelli? Ovviamente no.
Eppure, da quando insegno nelle scuole superiori ho una posizione diversa in merito. Devo necessariamente averla. Devo credere che sia possibile far entrare nel “campo visivo” di ragazzi e ragazze di 15 o 18 anni tutta una serie di stimoli che vadano a bilanciare, con un po’ di spessore e profondità, l’inconsistenza delle storie di Instagram, la realtà biecamente contraffatta di “temptation island” o il banchetto di sentimenti esposti come merce scadente al mercato degli stracci di “Uomini e Donne”.
Ci devo credere e ci credo perché vedo i risultati. Certo non sempre e non con tutti. Ma quando al proporre ad una classe la lettura di alcuni brani de I Promessi Sposi ci si sente rispondere “Che palle il Manzoni, prof.!” e poi dopo alcune settimane, si vedono le facce incantate, attente, alcune perfino commosse, mentre ascoltano le sofferenze soffocate di Gertrude che, piuttosto che andare contro il volere del suo padre-padrone accetta l’ergastolo in un convento, allora si capisce di aver compiuto un piccolo salvataggio. Un salvataggio dalla mediocrità.
Tutte le volte che, all’inizio dell’anno scolastico, ho una classe nuova, nei primi giorni dico subito loro che le mie materie (Letteratura Italiana e Storia) non sono utili. Nel senso che, specialmente la prima, non serviranno loro per fare meglio il ragioniere, l’avvocato, il dipendente delle poste o il farmacista. Serviranno loro, spiego, per fare meglio “la persona”, per essere cioè individui più articolati, più profondi e più belli. In breve, per saper emozionarsi di più e meglio. Non essere utile non vuole dire essere inutile. Le mie materie, continuo, non sono utili, sono qualcosa di più: sono superflue, nel senso etimologico del termine che riporta allo “scorrere sopra, più in alto”, e si possono studiare dunque per il puro piacere di farlo.
Ovviamente qua le facce dei ragazzi sono sempre un po’ stranite e sono sicuro che la maggior parte di loro ancora pensa “ma che vuole questo da noi?”
Ma poi durante l’anno, magari in un giorno piovoso di febbraio, succede che tu leggi un tal verso di Pascoli e vedi che dentro di loro (di alcuni almeno) si è aperta una porta su una stanza che fino ad allora non sapevano nemmeno di avere. Questo momento epifanico viene di solito esternato con frasi che variano a seconda della regione in cui ci si trova: in Toscana dicevano: “wow, tanta roba prof.”! A Milano vanno più sul “wow, strafigo prof.”! Ma il senso è lo stesso. Il senso è che hanno afferrato quel salvagente perché vogliono venir fuori, magari solo per un giorno, o anche per un’ora, dal mare della mediocrità ad asciugarsi un po’ al sole della bellezza.
C’è un’altra cosa che dico ai miei alunni e alunne quando fanno fatica a seguire una lezione o si scoraggiano di fronte alla complessità della materia. Dico che io vorrei essere per loro semplicemente come una guida in una passeggiata in un bosco. La bellezza, quella profonda, quella vera, non è immediatamente accessibile a tutti. È come un bellissimo giardino pieno di tutti i fiori, i frutti e le piante più belle e profumate. Un vero e proprio Eden, che però sta nascosto in mezzo ad un bosco pieno di rovi, sterpi e sentieri poco battuti. E allora bisogna andare a cercarlo con la dovuta pazienza, la dovuta attrezzatura e appunto una guida, che conosca il bosco un po’ meglio di noi, che scelga il cammino meno arduo, che tagli con la falce i rovi per aprire nuovi passaggi. Ma non bisogna dimenticare che ci stancheremo, ci graffieremo le braccia, ci sbucceremo forse le ginocchia, saremo punti da insetti, suderemo. Non tutti infatti arriveremo al magnifico giardino. Qualcuno si scoraggerà e si fermerà per strada, tornando ad accontentarsi dei fiori falsi e dell’aria condizionata dei centri commerciali.
Non solo, anche su coloro che ci arriveranno con me non avrò nessun potere: qualcuno si metterà ad annusare ogni fiore, ad assaggiare ogni frutto, godendone appieno e scoprendo nuovi profumi, colori e sensazioni. Qualcun altro si metterà seduto in terra e farà un pic nic con birra e sigarette lasciando in giro cicche e lattine.
Il compito di un insegnante, spiego, è solo portarvi là e indicarvi con il dito le cose belle da vedere. Da lì in poi il lavoro dovete farlo voi, seguendo la vostra libertà e la vostra indole. Guai se noi volessimo anche pilotare le vostre emozioni.
Tutte queste riflessioni le ho portate anche nell’altro mio settore di insegnamento, quello del tango. Ovviamente qua il contesto è diverso. In primo luogo perché le persone che vengono sono già interessate alla materia e non c’è bisogno di stimolarle continuamente a seguire la lezione. Ma portando oltre questa comparazione, recentemente mi sono chiesto: a che cosa sono interessati principalmente coloro che vengono ad un corso di Tango? Anche se alcuni di loro già conoscono a grandi linee la musica, certamente il primo desiderio è quello di imparare a ballare. E allora è naturale che la loro concentrazione sia rivolta più all’apprendimento del bagaglio tecnico relativo all’esecuzione dei giusti movimenti del corpo piuttosto che a lasciarsi andare alle sensazioni provocate loro eventualmente dalla musica.
Coloro che mi seguono da un po’ sanno quanto la questione del rapporto fra musica e movimento mi assilli nella ricerca costante di migliorare il mio modo di lavorare e di proporre la mia didattica.
Dietro l’ostinata mia insistenza di proporre sessioni di musicalità e di guida all’ascolto come complemento all’apprendimento dei passi e delle figure del tango, ci sono due ragionamenti fondamentali: uno è più ovvio e l’altro meno. Quello più ovvio è che non c’è danza senza aderenza alla musica. Se il movimento non è rivestito di musica, se la musica non ti attraversa il corpo per uscire poi arricchita, distillata dai tuoi gesti, allora siamo di fronte a mera attività ginnica. Quello meno ovvio è che partendo dall’immedesimazione con la musica, si riesce anche a forgiare e a migliorare il movimento. Ne consegue che la sensibilità verso la musica e l’abilità tecnica non sono due aspetti separati, così come non lo sono mente e corpo e forma e contenuto, a dispetto di quello che ci hanno insegnato molte filosofie e religioni occidentali. Così come la forma è il contenuto e l’anima è il nostro corpo, la sensibilità musicale e la tecnica sono come una lega di due metalli nella quale uno non può essere concepito e fruito separato dall’altro.
Se io mi faccio penetrare dalla bellezza di un certo passaggio musicale, il movimento che compio ne risulterà mutato, non perché l’insegnante mi chiede di piegare di più il ginocchio qui o di stendere più il piede là, ma perché l’ascolto concentrato della musica plasma il mio gesto e lo rende immediatamente diverso. Allora io posso correggere degli errori tecnici ricorrendo ad una maggiore attenzione alla musica.
E per emozionarsi di fronte alla musica del tango bisogna conoscerla, bisogna saperla ascoltare, né più né meno come con la musica classica. Qualcuno dice che per amare non basta l’amore. Forse è vero. Allora io rilancio e dico: per emozionarsi non basta essere capaci di provare emozioni; bisogna anche conoscere gli oggetti o le fonti che le possono suscitare. Nella fattispecie la musica del tango è così ricca di sfumature e di bellezze seminascoste che, solo se colte a fondo, possono dare origine a quelle sensazioni immediate e spontanee che modellano un gesto, un movimento.
Ecco allora che mutuando il concetto di “guida” dal contesto scolastico di cui parlavo prima, il mio intento con le lezioni di musicalità, è quello di mettermi a “puntare il dito” sui vari strati presenti nelle più belle canzoni del tango, sulle perle musicali o interpretative che rendono unico quel determinato brano; quello di proporre cioè una sorta di slow listening capace di portare l’attenzione dell’ascoltatore su quel dettaglio (un pianissimo, un rallentando, un rubato) che, pur avendo sentito quel pezzo chissà quante volte, non aveva mai notato. Proprio come se una mattina uscendo di casa per compiere il solito cammino verso l’ufficio fossimo improvvisamente accompagnati da una guida turistica che, mentre affrettiamo il passo guardando l’orologio e controllando se abbiamo preso chiavi e portafoglio, ci dicesse: “Hey guada lassù quella bifora del ‘500”, o “Hai visto che bel balcone fiorito all’ultimo piano di quel palazzo?”
Poi, appunto le emozioni non si possono, non si debbono pilotare. Però il solo atto di “indicare” può fare la differenza e si può sperare che, anche soltanto uno su cento di quelli che ci hanno prestato attenzione, da quel giorno, non farà il suo tragitto casa-lavoro senza notare la bellezza di quella bifora o il fascino di quel balcone fiorito.
Cosa dire ….
…il “forte sentire” sa sempre come farsi sentire!