La bellezza del gesto astratto
Uscendo dal Teatro Studio Melato di Milano, in una sera finalmente primaverile, ho deciso che sarebbe valsa la pena riflettere su ciò che ho visto. E cercando le parole per cominciare questo articolo, la prima riflessione che mi viene spontaneo fare è che non so cosa ho visto. Nel senso che non so come chiamare quella cosa che mi ha tenuto lì dentro per quasi un’ora e mezza. Convenzionalmente si parlerebbe di uno spettacolo teatrale. Ma sebbene questa definizione sia molto usata al giorno d’oggi, non possiamo ignorare che ad un certo punto, nella storia del teatro degli ultimi 50/60 anni, il termine spettacolo ha assunto, per coloro che facevano un discorso sperimentale sulla specificità del linguaggio teatrale, connotazioni che richiamano una forma di intrattenimento “leggero”, di facile accesso, che mira a divertire con qualcosa appunto di spettacolare, più che a far riflettere e a provocare emozioni complesse e profonde. Ecco, se per spettacolo intendiamo quello, allora ciò che ho visto stasera non era uno spettacolo. Non era di facile accesso.
Cercando un termine più neutro possibile, quello che ho visto stasera lo chiamerò performance. Si intitola Chorós ed è messa in scena dalla compagnia AMR teatro danza su progetto coreografico di Alessio Maria Romano.
Provo a descriverla: sedici ragazzi, maschi e femmine, corrono in lungo e in largo su un grande palcoscenico per quasi 90 minuti. Fine della descrizione. Si muovono. Basta. Senza un senso, senza un perché, senza un testo, né motivazioni drammaturgiche.
Tutti coloro che, abituati a vivere in un mondo comunicativo basato sulla trasmissione di senso, non riescono a concepire un contesto in cui il significato possa essere assente, si sarebbero annoiati e non avrebbero capito. Ma non avrebbero capito perché, appunto, non c’era niente da capire.
Quindi, se uno di fronte a performance di questo genere si chiede: “che significa?” si annoia a morte. Se uno invece quella domanda non se la fa, ecco che allora quella stessa esperienza può aprirgli un mondo. Io non me la sono fatta. E ho trovato Chorós di una freschezza rigenerante.
Ci avete mai pensato? Quando uno va a vedere un concerto di musica, poniamo sinfonica, non è che si chiede cosa significa un do, o un si bemolle o un accordo di la maggiore.
Quando invece è coinvolta la parola, ci aspettiamo sempre che quel suono, fatto di lettere ordinate in un certo modo, ci rimandi a qualcos’altro, cioè ad un significato. Succede anche con i gesti. Quasi sempre infatti li usiamo per sostituire le parole e veicolare un qualche messaggio: intenzionale, come quando alziamo il pollice in alto per dire a qualcuno: ok. O non intenzionale, quando ad esempio iniziamo a tremare dando involontariamente il segnale che abbiamo freddo o paura.
Sul palcoscenico stasera invece c’era il movimento nudo, libero da qualsiasi funzione semantica da assolvere. La locandina di presentazione diceva appunto che la performance “usa il movimento come unico linguaggio”. Per questo sono andato a vederla.
Movimento è una parola che ha sempre esercitato su di me un fascino particolare. È bellissima se ci pensate bene, sia per quello che significa, sia anche per il solo suono in se stesso: questo inizio con un piede anapesto (due sillabe brevi e una lunga) è una partenza in accelerazione delle due prime sillabe (mo-vi) che scivolano via e vanno a rallentare sulla salita della nasale (men) per poi ridiscendere a riposarsi sulla finale (to). Provate a pronunciarla dentro di voi, senza pensare al significato, godendone solo il suono. Movimento.
Credo che inconsciamente sia per questo che ho chiamato la mia scuola Movimento Tango. Qui c’è una combinazione perfetta (lo noto solo ora) fra un anapesto e un giambo (breve, breve, lunga / breve lunga: ta-ta-tàn-ta-tàn-ta). Non solo, ma la ascensione verso la prima sillaba nasale (men) trova eco in una seconda salita (tan) creando così un saliscendi che mima appunto il senso di dinamicità. Troppo spesso in nome del significato sottovalutiamo la bellezza dei suoni delle parole.
Paul Valery parlando della poesia oscura, di difficile comprensione, disse che l’oscurità impedisce che la parte sensibile della parola, cioè il suono, quello godibile attraverso i nostri sensi, sia sostituita immediatamente dalla parte intellettuale, cioè dal significato (Paul Valery, Cahiers, Gallimard, Paris).
Come dire: quando non si capisce una parola, prestiamo più attenzione all’elemento sonoro, che in linguistica si chiama il significante.
La stessa riflessione si può applicare al gesto. Quando non riusciamo a leggerci nessun significato, abbiamo due opzioni: bollare lui e chi lo compie come “strano” e rifiutarlo, oppure godercelo per quello che è, cioè un bel geroglifico disegnato nell’aria.
E questo ho trovato in Chorós: 16 corpi che all’inizio camminano a passo svelto in modo disordinato tra un angolo e l’altro del palco. Si intrecciano, si schivano, si raggruppano, si separano, si ritrovano, creando un vento di pura energia che mi ha catturato fin da subito. Poi, mentre ti chiedi: “oddio, ma sarà tutto così?” Il ritmo cambia e con esso gli stati d’animo che quel flusso di gesti è capace di trasmettere. Ora il movimento si fa più piccolo, con i corpi che si avvicinano a formare un capannello illuminato da una debolissima luce che lascia intravedere solo le loro teste oscillanti lentamente mentre le gambe cambiano peso da un piede all’altro. Ora le teste ruotano in alto all’unisono, ora il gruppo si accascia lentamente a terra con le loro schiene a formare un tutto unico che potrebbe essere un guscio di tartaruga o una falange oplitica.
Insomma il ritmo, la velocità e l’energia variano continuamente ed è mirabile che questo gruppo di ragazzi, senza il bisogno di pronunciare parole né di mimare gesti codificati, riescano a tenerti lì incollato a godere di quei movimenti. Perché? Mi sono chiesto.
Perché qua c’è il gesto autonomo, il gesto che si è liberato dell’esigenza di veicolare una narrativa. Non è nemmeno danza la loro, non c’è un linguaggio a cui quei gesti rimandino. Sono gesti astratti, inusitati, originali. Sono gesti che gridano la loro libertà di esistere senza servire a niente; a niente di comunicativo.
A questo punto mi viene in mente un bellissimo incipit di un libro di uno dei miei autori preferiti, Milan Kundera. Il romanzo si intitola L’immortalità (Adelphi) e comincia con il narratore che osserva una signora di sessant’anni compiere un gesto che lo affascina.
Siamo in una piscina coperta di Parigi e la signora in questione è appena uscita dall’acqua dopo la sua lezione di nuoto.
La donna si allontanava in costume da bagno facendo il giro della piscina. Superò il maestro di nuoto e in quel momento mi si strinse il cuore! Quel sorriso e quel gesto appartenevano a una donna di vent’anni! La sua mano si era sollevata con una leggerezza incantevole. Era come se avesse lanciato in aria una palla colorata per giocare col suo amante. Quel sorriso, quel gesto avevano fascino ed eleganza, mentre il volto e il corpo di fascino non ne avevano più. È il fascino di un gesto annegato nel non fascino del corpo. Ma la donna, anche se doveva sapere di non essere più bella, in quel momento l’aveva dimenticato. Con una certa parte del nostro essere viviamo tutti fuori dal tempo. Forse è solo in momenti eccezionali che ci rendiamo conto dei nostri anni, mentre per la maggior parte del tempo siamo dei senza-età. In ogni caso, nell’attimo in cui si girò, sorrise e salutò con la mano il giovane maestro di nuoto, lei ignorava la propria età. In quel gesto una qualche essenza del suo fascino, indipendente dal tempo, si rivelò per un istante e mi abbagliò. Ero stranamente commosso.
Anche qui c’è uno scollamento fra significante e significato che permette all’osservatore la libertà di immaginarsi quell’anziana signora a vent’anni. C’è il gesto goduto in quanto tale, tanto che chi lo osserva può attribuirgli un significato tutto diverso (era come se avesse lanciato in aria una palla colorata per giocare col suo amante).
Ecco il punto, tornando ancora a Chorós: quando il rapporto fra significante e significato non è così stretto e univoco, quando il significato viene messo in ombra o è addirittura assente, il fruitore viene attratto nel processo creativo. Viene invitato a riempire i vuoti con la sua sensibilità, viene incoraggiato a completare l’opera, come teorizzava già Umberto Eco negli anni ’60 nel suo epocale trattato Opera Aperta, forme e indeterminazione nelle poetiche contemporanee (edizioni Bompiani).
Ecco, mentre sei lì che guardi quei gesti senza un referente narrativo, godi della tua libertà di vederci quello che vuoi, anche due o più cose allo stesso tempo, anche in contraddizione fra loro. Tanto non lo devi spiegare a nessuno quello che ti passa per la mente. Non deve essere una storia ordinata, può avere la stessa aleatorietà e incongruenza dei sogni.
Allora, se pensiamo alla piattezza e superficialità di alcuni programmi televisivi (ma anche teatrali purtroppo) dove la struttura e la narrativa sono talmente chiuse e preconfezionate che l’unico sforzo che il nostro cervello deve fare è semplicemente quello di tenere gli occhi aperti, ecco che si capisce perché c’è ancora bisogno di teatro, e in modo particolare di questo tipo di teatro qui, che ti aiuta a staccarti, per una sera, da una società iperfigurativa e a forte saturazione semantica, in cui tutto deve avere una spiegazione, e ti dona un’ora di assoluta libertà creativa, dandoti la sensazione che a volte è bello perdersi, che non capire può essere liberatorio. Perché più si capisce e meno si crea.
Stefano sei veramente un grande! Orgogliosa di averti conosciuto e di averti avuto come maestro!
Grazie cara.