Penso che sarà successo a molti dei miei colleghi maestri di Tango, o anche a ballerini e frequentatori di milonghe, di non saper rispondere alla domanda: “qual è la tua orchestra preferita”? Non si sa rispondere semplicemente perché dipende dal momento. Almeno, per me, funziona così e mi sembra abbastanza normale. È un po’ come se ti chiedessero qual è il tuo indumento preferito. Se te lo chiedono a dicembre, la risposta sarà sicuramente diversa da quella che uno darebbe a luglio.
Con le orchestre di Tango è un po’ lo stesso. Si va a periodi. Si, perché la musica del Tango è talmente ricca che coloro che, per lavoro o per piacere (spesso i due elementi sono inscindibili fra loro) sono costantemente esposti all’ascolto delle più famose orchestre, fanno spesso nuove scoperte, riascoltano gli stessi brani con un’attenzione diversa, oppure, grazie alle emozioni di una tanda speciale, rivalutano una canzone o un’orchestra che fino a lì non li aveva particolarmente colpiti. Succede anche a volte di individuare in un determinato brano qualche “perla” musicale che le nostre orecchie non avevano registrato fino a quel momento. Insomma, con un paragone forse leggermente azzardato, si potrebbe dire che funziona un po’ come con i classici della letteratura: più lì si legge e più vi si scoprono cose nuove.
Ed è quello che sta accadendo a me in queste settimane con l’orchestra di Pedro Láurenz, che sarebbe la mia risposta, oggi, se qualcuno mi facesse la domanda del titolo di questo articolo.
Ricercando, ascoltando e analizzando musica per le mie lezioni di “Musicalità e Guida all’ascolto del Tango”, mi sono riavvicinato a questa orchestra che, sebbene venga suonata occasionalmente nelle milonghe di oggi, non è certo fra quelle che il tanguero medio menzionerebbe se gli venisse chiesto all’improvviso di nominare, su due piedi, le 5-6 orchestre più famose della storia del Tango.
Eppure la figura di Laurenz come bandoneonista, prima ancora che come direttore della sua orchestra, ha avuto una enorme importanza per lo sviluppo della tecnica interpretativa della musica di Tango. Senza dimenticare che fu anche compositore di brani oggi celeberrimi tra i quali “Mala Junta”, “Orgullo Criollo” e “Milonga de mis amores”.
Fece parte, dalla metà degli anni ‘20, del mitico sexteto De Caro. Mitico è forse l’aggettivo giusto per questo ensemble che tanta importanza ha avuto in termini di innovazione stilistica e di influenza su musicisti più giovani (uno su tutti Osvaldo Pugliese), ma che al giorno d’oggi non riesce ad uscire dalle nebbie del passato per affermarsi sulle piste delle milonghe contemporanee. Forse De Caro si era spinto troppo in avanti sulla strada dell’innovazione musicale, sia dal punto di vista della complessità armonica che della varietà ritmica, allontanandosi dalle esigenze dei ballerini, i quali sopportano la sperimentazione solo fino a quando non sacrifica il rassicurante ritorno di pattern regolari che servono alla danza.
Infatti poi venne D’Arienzo a rimettere le cose a posto e ad allontanare indirettamente la sperimentazione armonico-ritmica dalla pista della Milonga (vedi la Rivoluzione restauratrice su questo blog). Quanti di voi hanno mai sentito la tanda di De Caro in una Milonga di oggi? Pochissimi direi. Lo stesso Pugliese, che di De Caro è figlio artistico ed ha condotto le sue sperimentazioni 20 anni più tardi, quindi in un’epoca in teoria più ricettiva alle novità, non è accettato sulle piste di proprio tutte le milonghe e non è suonato da tutti i musicalizadores. Non solo, ma ci sono vecchi Milongueros puristi a Buenos Aires che, pur considerando Osvaldo Pugliese un grande musicista e un’icona nazionale, preferiscono ascoltarlo piuttosto che ballarlo.
Ma tornando a Laurenz, fu una metà della coppia d’oro di bandoneonisti che contribuì a fare grande l’orchestra di Julio De Caro. L’altro era un altro Pedro: Pedro Maffia, raffinato musicista di tre anni più grande di Laurenz e da questi ammirato come un idolo. Quel gioco onomastico del destino non sfuggì ad un altro grande del Tango che molti anni dopo, nel 1980, dedicò a questi due giganti del suo stesso strumento una composizione per bandoneon solo intitolata “Pedro y Pedro”. Stiamo parlando niente meno che di Astor Piazzolla.
Mentre il primo Pedro (Maffia) era rinomato per il suo tocco elegante, per il suo fraseggio raffinato e un po’ introverso, il secondo Pedro, cioè il nostro Laurenz, si caratterizzava invece per un modo più sanguigno, focoso, espressionista di relazionarsi con lo stesso strumento. Frasi spezzate, nervose, seguite da pause che creano un andamento irregolare, nevrotico, umorale. Basta ascoltare come si presenta nell’introduzione della celebre versione di “Arrabal” che l’orchestra da lui fondata nel 1934 incide nel 1937. Prestate attenzione ai primi 10/12 secondi.
Da un primo ascolto si capisce subito che quando Laurenz creò la sua orchestra, la caratterizzò in senso “ballabile”, piena cioè di occasioni ritmiche che riportavano alcune sperimentazioni Decareane sulla pista della Milonga. Riascoltiamo ora di nuovo gli ultimi 33 secondi (da 2.32) questa volta prestando attenzione a quello che succede “sotto” la melodia frastagliata del bandoneon: é tutto un saltellare degli archi che tramite il pizzicato illuminano di scintille ritmiche il quadro melodico, alleggerendo l’inquietudine espressa dalle dita di Laurenz. É come guardare un ragazzino in preda ad una crisi di pianto capriccioso, circondato da un cucciolo di cane che gli saltella intorno scodinzolando e leccandolo per cercare di tirarlo su.
Ecco, se dovessi dire perché in questo periodo mi piace molto l’orchestra di Pedro Láurenz direi che il motivo principale è che non prende mai l’istanza sentimentale troppo sul serio.
Nel tango ci sono due anime: quella giocosa, goliardica e irriverente del tango più antico (quello della fine del secolo XIX) di cui molto a noi non è arrivato, se non nel genere musicale della Milonga, e quella malinconico-sentimentale, a volte, diciamocelo, un po’ mielosa e imbevuta di enfasi retorica, specialmente per quanto riguarda i testi. Diciamo che Laurenz riesce a creare una sintesi dialettica tra questi due elementi, bilanciando quello sentimentale con una dose di dinamismo beffardo che produce un punto di equilibrio di rara efficacia.
Fate un esperimento se vi va: prendete di nuovo Arrabal e suonatela tre volte, però solo dal minuto 1.05 al 1.34. La prima volta concentratevi sulla linea melodica di questo lungo assolo romantico del violino. La seconda, invece, ascoltatesolo la “mitragliata” di semicrome staccate, scandite dalla sezione ritmica dell’orchestra che, mentre fa finta di accompagnare, canta in realtà in contrappunto la melodia dell’inizio. Finalmente, al terzo ascolto, lasciate che l’orecchio “abbracci” queste due polarità godendo della loro sintesi.
Confrontiamo ora due versioni diverse dello stesso tango. Si tratta del famoso “Todo”. Mettiamo di fronte la versione di Laurenz e quella di Di Sarli.
La versione di Di Sarli è seria; è bella, elegante ed equilibrata. Niente da dire. Anche perché in questo articolo abbiamo scelto di parlare soprattutto di Laurenz. Se ascoltiamo attentamente la prima parte della versione di quest’ultimo dunque, quella strumentale, possiamo renderci conto di quanto sia ricca e articolata l’orchestrazione, con gli strumenti che giocano tra loro passandosi la palla della melodia da uno all’altro. Al punto 00:15 ritroviamo lo stesso procedimento ritmico che abbiamo appena osservato in “Arrabal”. Cioè mentre sulla linea principale ascoltiamo un assolo languido di violino, sotto sentiamo, saltellante e “scodinzolante”, lo staccato degli archi che paiono accompagnare solamente, ma in realtà stanno cantando in modo ritmico la melodia principale, dando appunto all’insieme un sapore agro-dolce.
Poi ancora, quando i violini (dal punto 00:31) modulano l’inizio di un’altra frase legata e sentimentale, vi si contrappone ora il bandoneon che pare commentare ogni semifrase melodica degli archi con un tono sarcastico. È come aggiungere una scorza di limone alla dolcezza della torta della nonna.
Subito dopo arriva il piano anche lui a prendere in giro il tutto con la brillantezza galoppante delle note acute della mano destra (da 00.41 a 00.46), fino al momento subito prima dell’entrata del cantante in cui (al punto 00.59) scoppia un vero e proprio fuoco d’artificio ad opera della mano sinistra del piano che conduce direttamente al “Todo” gridato da Alberto Podestá. No, aspettate, non andate avanti a leggere. Mettete di nuovo il cursore al minuto 00.59 e ascoltate questa mini cavatina rapidissima della mano sinistra che arriva subito prima della voce. Perché queste cose spesso passano inascoltate, lo so, però questa volta sarebbe davvero un peccato. Dura meno di due secondi, ma è una vera e propria chicca.
Nella seconda parte della canzone poi Podestà fa il suo ruolo, quello del cantore sentimentale e lo fa in modo sublime, ma la vitalità armonico-ritmica dell’orchestra fornisce un contraltare dinamico alla tristezza malinconica insita in molti tanghi come questo, rendendocela digeribile anche quando non ne siamo tanto in vena. Ecco perché Laurenz è il mio favorito, in questo periodo almeno.
Sullo stile impulsivo e impetuoso di Laurenz il poeta Horacio Ferrer ha scritto alcuni versi che, tradotti, suonano più o meno così: “chi lo ha visto suonare potrebbe dire che non fosse un bandoneon quello che premeva con le mani, ma un puledro con tastiera che mandava un nitrito sanguigno”.
La figura del puledro scalpitante, che non è poi così lontana dal cucciolo scodinzolante, ben si addice al modo di suonare di Laurenz e allo stile della sua orchestra che con questo stile interpretativo energico e scoppiettante fa da antidoto alla componente lamentevole e languida di molti tanghi, pungolandola e sfidandola, come se tentasse di scuotere qualcuno cercando di convincerlo che si può uscire dall’oscurità della depressione affidandosi all’azione e a un po’ di sano movimento.