L’indifendibile leggerezza del Tango (delle origini)

Il Tango Don Juan

Per spiegare il tipo di evoluzione della musica del Tango dalle sue origini, cioè dal 1880 circa, alla sua cosiddetta Epoca d’Oro, che coincide pressappoco con gli anni ’40 del Novecento, mi è sembrato utile seguire le vicende di una canzone in particolare: il Don Juan, una delle prime composizioni di Tango di cui si abbia notizia certa. Ascoltare le diverse interpretazioni che le varie orchestre hanno dato di questa partitura ci da la misura del cambiamento che la sensibilità e i gusti del pubblico hanno subito nel corso di quasi mezzo secolo e della varietà di stili, colori e umori che possono concentrarsi sotto la parola Tango.

Don Juan è stato composto, pare, intorno al 1898, quindi agli albori del Tango, da un certo Ernesto Ponzio, figlio di un musicista napoletano e una donna uruguayana, che rimasto orfano di padre in giovane età, dovette cominciare a guadagnarsi da vivere suonando nelle strade, nei caffè e nelle cantine di dubbia reputazione. Siccome Ponzio nasce nel 1885, se la notizia che Don Juan è stato composto nel 1898 è vera, significa che il ragazzino aveva appena 13 anni. Questo non vuol dire che sia stato un enfant prodige. Non siamo certo di fronte ad un Mozart del Rio de la Plata. Don Juan è una canzoncina semplice, spontanea, divertente e irriverente. Niente di più.

Le prime interpretazioni di questo brano di cui disponiamo sono sicuramente vicine allo spirito giocoso, leggero e goliardico con il quale è stato composto. Sentiamo qui per prima la versione dell’orchestra tipica di Vicente Greco, uno dei primi ensemble ad arrivare alla registrazione su disco. Siamo nel primo decennio del 1900.


Come si può notare, siamo molto lontani dal carattere malinconico e sentimentale che noi contemporanei attribuiamo oggi al Tango Argentino. Bisogna sapere, infatti, che il Tango nasce allegro; che nei primi decenni della sua vita, questo genere veniva associato al puro divertimento, al carnevale, alla burla sagace e, quando alla musica si accompagnavano dei testi, al doppio senso spinto. Tutti atteggiamenti che ben si adattavano alla frivolezza di quel tipo di locali notturni (bordelli, cabaret, cantine con donnine) nei quali il Tango vide la luce e in cui gli uomini soli andavano a cercare qualche ora di sollievo dalle fatiche e dalle miserie della vita quotidiana. Questo era il tango delle origini, quello che tanto piaceva a Jorge Luis Borges, il quale sosteneva che il genere era stato poi rovinato dalla malinconia e dal sentimentalismo triste subentrato nella musica e nei testi a partire dagli anni ’20. Borges paragonò l’impatto innovativo del tango primordiale sulla società di fine Ottocento alla forza di rottura che il Rock ‘n Roll ha esercitato sugli usi e costumi degli anni ’60.
Sentiamo qui un’altra versione scoppiettante di Don Juan, anche questa risalente ai primi decenni del Tango, eseguita dall’orchestra di Roberto Firpo, dove predomina ancora, pur nel contesto di un arrangiamento più complesso, un sapore giocondo, festoso e vivace.


Ascoltando questa interpretazione guidati dal giudizio di Borges è possibile sentire in essa un che di orgiastico, di ebbrezza sfrenata, di voglia di trasgressione, di impeto a prendere a sberle e a sberleffi la vita. 

Tutto diverso invece è l’abito sonoro con cui l’orchestra di Carlos Di Sarli ha rivestito le stesse note di Ernesto Ponzio per la seguente incisione del 1941:


Talmente grande è la diversità del registro qui scelto, che un orecchio poco avvezzo stenterebbe perfino a riconoscervi la stessa canzone. Qui, prima di tutto, il tempo rallenta e il ritmo si carica di una gravitas riflessiva. Ogni battito scende giù cadenzato, ponderato, proprio nel senso del pondus, del peso con il quale cade sul nostro orecchio, suggerendo una profondità meditata, quasi sofferta, lontana mille miglia dalla leggerezza delle versioni dei primi anni del secolo. C’è poi la mano sinistra del piano che, con una zavorra di compostezza e autorità, riporta costantemente a terra i voli pindarici dei violini e poi ci sono loro, i violini, che appunto volano ad ali spiegate sopra quel buffo riff musicale, nucleo della composizione originale, facendone all’improvviso una cosa seria. Da notare anche che, per rinforzare il senso della gravitas di cui parlavo prima, Di Sarli decide, cosa insolita, di affidare addirittura gran parte dell’ultima frase melodica proprio alla mano sinistra (dal minuto 2:26 a 2:34), che con i suoi rintocchi imperterriti contribuisce a conferire una certa cupezza al tessuto sonoro. Certo, dagli anni inizi del Novecento agli anni ’40 la società argentina si è profondamente trasformata, sono variati i gusti. È cambiata la gente e il Tango ha mutato pelle. Era inevitabile che succedesse, legato come era il primo tango all’ambiente sociale ristretto in cui era nato.

Devo dire che studiare Borges e le sue valutazioni sul Tango dei primordi (l’unico da lui considerato il vero Tango), mi ha permesso di riascoltare quelle canzoni semplici, primitive, uscenti da dischi gracchianti che parlano di un’epoca remota, con un orecchio nuovo e di scoprire in esse un qualcosa che prima mi ero perso. Ma è anche vero, se mi è consentito contraddire in tutta umiltà il grande poeta e intellettuale argentino, se non altro con l’attenuante di farlo dal punto di vista di chi balla, che senza quella mutazione avvenuta nella musica del Tango a partire dagli anni ‘20, che porta poi, attraverso le evoluzioni del decennio successivo, a incisioni come quella del Don Juan di Sarli del 1941, probabilmente il Tango sarebbe rimasto un fenomeno locale e ben circoscritto nel tempo. Difficile pensare infatti che, solo con il materiale sonoro di brani come Don Juan e con gli stili interpretativi delle prime due esecuzioni qui proposte, il Tango sarebbe arrivato geograficamente e cronologicamente fino a noi e sarebbe ascoltato e ballato, come lo è oggi, nei 4 angoli del mondo a quasi un secolo e mezzo dalla sua nascita.

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