Tango e Palcoscenico

In tempi di campionati mondiali di Tango e guardando i video che arrivano da Buenos Aires in questi giorni, mi è venuto spontaneo fare alcune riflessioni che mi piace condividere qui per sentire cosa ne pensano sia coloro che conoscono questo mondo, sia coloro che ne sono totalmente alieni. Anzi, spesso chi viene messo di fronte ad un fenomeno per la prima volta è in grado di notare aspetti nuovi che gli altri, gli esperti, non vedono già più per consuetudine.
Piccolo cappello introduttivo per i non addetti ai lavori: il campionato mondiale di Tango Argentino che si svolge ogni anno a Buenos Aires si divide in due categorie: Tango de Pista e Tango Escenario.
La prima chiede ai partecipanti di ballare come si balla nella pista del salon, della Milonga, chiede insomma di ballare con il partner per il partner, come se non ci fosse nessuno che guarda, come se i due fossero fuori una sera a ballare. Quindi socialità del ballo, connessione con l’altro e niente rappresentazione. Chi guarda e chi giudica lo fa come se in un certo senso guardasse dal buco della serratura, o meglio, come se fosse seduto a bordo pista in una balera mentre sta facendo riposare i piedi.

La seconda, il Tango Escenario, già nel nome colloca la sfida in un altro luogo, sul palcoscenico, come da traduzione letterale.
Ed è questa la categoria su cui vorrei puntare la mia riflessione. Ho frequentato il teatro per molti anni dall’università in poi, ne ho scritto molto, molto ci ho riflettuto, e se c’è una cosa che ho imparato come uno dei comandamenti fondamentali di questa forma espressiva è che quando sali sul palcoscenico devi avere molto chiaro ciò che hai da dire e il modo in cui vuoi dirlo. Poi non è detto che la gente capisca esattamente quella cosa lì che volevi dire tu. Ne capirà magari una diversa, tutta sua. Ma se chi rappresenta crede fermamente nel contenuto e nella forma di ciò che mette in scena, allora il pubblico, qualsiasi sia la sua interpretazione, avrà un’esperienza autentica di teatro. Altrimenti sarà solo spettacolo, intrattenimento.

Per carità non intendo criticare la maestria, la precisione tecnica e anche la passione trasmessa dalle coreografie pulite, provate e cesellate con ammirevole dedizione dalle coppie in gara, la grande maggioranza molto brave nel ballo e alle quali va tutta la mia ammirazione. Solo che lì c’è qualcos’altro. C’è un palcoscenico. E dove c’è un palcoscenico dovrebbe esserci teatro. E allora sorgono tutta una serie di questioni che non so fino a che punto le suddette coppie si siano poste.

In quasi tutte le coreografie che vedo ultimamente nelle esibizioni di Tango Escenario, incluso quelle del mondiale, c’è una giustapposizione di elementi che provengono da mondi e da modi espressivi diversi. Dividiamo il corpo in due per lo scopo di questa analisi: là sotto ci sono le gambe che si intrecciano, fendono l’aria con vibrante energia, disegnano geometrie sempre nuove, tracciano linee verso l’astratto, vie di fuga verso l’imprendibile, infinito universo di emozioni che ognuno può ricevere e crearsi mentre assiste a questo miracolo di quattro gambe che si muovono in sintonia con la musica come se appartenessero ad una sola volontà.
Dall’altra c’è però la parte superiore del corpo dove prevalgono le braccia e il volto. E lì, secondo la mia modesta opinione, cominciano i problemi, perché le braccia e il volto vengono spesso usati invece per esprimere qualcos’altro: frammenti di storie, schegge narrative spesso prive di connessione reciproca e del tutto incongruenti con l’insieme. Non è raro vedere, nei momenti in cui l’abbraccio si scioglie, il braccio di lui afferrare con fermezza mascolina il polso di lei che fingeva di scappare con rabbia dalla coppia. In questo caso a rinforzare il segno, come se già non fosse abbastanza didascalico, intervengono anche la faccia severa di lui e l’espressione di lei che, accettando di essere riacciuffata, si fa ora cedevole e spasimante. Oppure pensate a quei momenti in cui a volte la donna getta il collo e le braccia all’indietro inarcandosi fino quasi a terra con lo sguardo sognante a significare abbandono al suo uomo, mentre lui la tiene per la vita. O ancora quando la mano di lei si stacca dolcemente dalla presa sulla schiena di lui e va ad accarezzare la sua nuca o, peggio, quando la mano vogliosa del maschio scorre su tutto il fianco della femmina fino ad accarezzarle con lascivia la coscia inguantata dalle immancabili calze a rete.
Fino a qualche tempo fa, quando vedevo queste cose ne ero infastidito, oggi addirittura perdo l’interesse ad andare avanti a guardare oltre. Me ne scuso, non è per arroganza per mancanza di rispetto, ma per pudore. Mi spiego: non solo tutti quei momenti che ho appena elencato sono gesti ad alto contenuto retorico, fortemente stereotipati e quindi inautentici, ma portano nell’economia della rappresentazione un elemento assolutamente eterogeneo rispetto a quella astrazione di linee che sta alla base della danza.

Se il mondo di sotto, quello della geometria delle gambe, comunica in modo astratto, proprio come fanno la pittura non figurativa o la musica, e lascia completamente libero il fruitore di completare l’opera creandosi, con il suo proprio apparato percettivo le sue proprie emozioni uniche e sfuggenti, (vaghe e indefinite, avrebbe detto Leopardi), proprio come quando si ascolta un concerto grosso di Bach o una sonata per pianoforte di Mozart, quello di sopra invece, l’emisfero del movimento delle braccia o delle espressioni facciali, insiste a voler guidare il percorso emotivo di chi guarda presentandogli, in modo pedante, temi o concetti riconducibili proprio a situazioni etichettabilli come “rabbia”, “passione tormentata”, “dominazione” “sottomissione” ecc.
Sarebbe come se in un quadro di Mondrian o di Klee o di Pollock comparisse da qualche parte sulla tela un putto cinquecentesco o una nobildonna in abiti rinascimentali.
Allora il mio punto è: o si comunica in modo astratto o si comunica in modo narrativo. Cioè, o si decide che là sopra, sul palcoscenico si è ballerini o si sceglie di essere personaggi.

Io preferisco la prima scelta, cioè quando il corpo del danzatore si sublima in un puro vettore di linee e di energia, proprio perché in quel caso sono messo, da fruitore, di fronte ad un’opera aperta, che richiede il mio libero apparato emotivo per essere completata. È quel tipo di opera d’arte che così bene ha teorizzato negli anni ‘60 Umberto Eco nel suo saggio omonimo (Opera Aperta, Bompiani 1962), un trattato di capitale importanza per tutta l’arte moderna di cui consiglio umilmente ma vivamente la lettura a chiunque si dichiara artista. Ci sarà ovviamente chi preferisce la seconda, e cioè essere messo di fronte ad una struttura narrativa di tipo figurativo. Benissimo. Però allora queste schegge narrative impazzite devono comporsi in una unità plausibile, in una storia appunto. Qualsiasi sia la scelta per così dire registica, io dico: se andiamo su un palcoscenico a dire qualcosa, facciamo che una scelta ci sia, che ci sia una riflessione, una profondità a monte e che questo processo creativo si percepisca nel prodotto finale. Uscendo dal contesto del campionato mondiale, so che alcuni bravi colleghi ballerini si sono posti e si pongono tutt’ora questo problema. E cioè di come portare avanti e far evolvere il tango da rappresentazione senza cadere nel manierismo di gesti svuotati del loro contenuto semantico se non altro dalla seriale ripetizione di questi ultimi 30 anni, in cui spettacoli ed esibizioni di tango hanno imperversato in tutta Europa e nel mondo. Mi sembra però che questi artisti illuminati siano ancora una minoranza se sui palcoscenici si vedono ancora troppi Tango Show messi su in fretta e furia con due giorni di prove, in cui si supplisce alla mancanza di tempo e di profondità con l’introduzione dei soliti cliché che si pensa possano sollecitare l’applauso del pubblico. Intrattenimento appunto. Il palcoscenico è il luogo del teatro. E il teatro è un’altra cosa.

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